DIRITTI DEI LAVORATORI E CARTA DI NIZZA: PER UN’EUROPA DAVVERO SOCIALE?
- Alessandro Tomaselli
- 1 dic 2023
- Tempo di lettura: 37 min
Alessandro Tomaselli
Abstract: questo contributo mette in discussione la possibilità di configurare l'Unione europea come entità extraterritoriale, anche di natura sociale, in grado di riconoscere e garantire i diritti dei lavoratori, in particolare alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, dato che dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Carta di Nizza è stata riconosciuta come avente lo stesso valore giuridico dei Trattati, da un lato, e le discutibili ultime sentenze della Corte di giustizia dell'UE, dall'altro.
Keywords: Unione Europea, Stato sociale, Diritti fondamentali
1.
Introduzione: la tutela del lavoro nel Trattato di Lisbona e nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea...
E’ comune l’opinione secondo cui l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha formalmente sancito ciò che potrebbe definirsi la tanto sospirata conversione sociale dell’Unione Europea, correttamente dai più ritenuta alla stregua dell’ultimo, fondamentale approdo in termini di allargamento di compiti e competenze dell’UE al fine del completamento del processo d’integrazione: a differenza della versione originaria dei Trattati di Roma, essenzialmente ispirata da una ratio essenzialmente economica, nonché delle modifiche sulla stessa intervenute nel tempo e quasi del tutto indifferenti alle istanze sociali di cui i lavoratori erano (e continuano ad essere) portatori, sembra che l’attuale architettura dei suddetti Trattati, almeno sulla carta, attribuisca espressamente rilevanza a tali esigenze: è innegabile, infatti, come la ratifica dell’Atto Unico Europeo, che per la prima volta attribuisce all’ex Comunità Europea obiettivi di natura sociale, nonché del Trattato di Amsterdam, che espressamente richiama la Carta Sociale del 1961 e del 1989, e di quello di Maastricht, compendiato dal Protocollo Sociale e foriero di epocali innovazioni quali l’introduzione dell’istituto della cittadinanza europea, per quanto embrionali indicatori ai fini dell’emersione in ambito europeo di una reale coscienza sociale, non fossero sufficienti a rappresentare l’Unione Europea come
2
organizzazione internazionale (anche) di tal natura, non potendo al riguardo paragonarsi a quanto enunciato dall’accennata ultima versione dei Trattati, oltretutto in duplice direzione, finalmente apprestando una composita veste formale, da un lato, oltretutto avallata e vieppiù rafforzata tramite l’attribuzione del suggello di diritti fondamentali alle prerogative in questione, dall’altro1.
Dal primo punto di vista, è da dire che ai sensi del p. 3 dell’art. 3 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), tra l’altro, si stabilisce che “L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L'Unione combatte l'esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri”.
Inoltre, il Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), dopo avere specificato che “Nella definizione e nell'attuazione delle sue politiche e azioni, l'Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale, la lotta contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana” (art. 9), dedica l’intero Titolo X alla Politica Sociale ove, sulla premessa in forza della quale “L'Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l'emarginazione” (art. 151) e “L'Unione
1 In tema, v., tra gli altri, AZZARITI, I diritti sociali e il futuro dell’Europa, sul sito eticaeconomia.it, 15 dicembre 2014, 2; GIUBBONI, Oltre il Pilastro europeo dei diritti sociali. Per un nuovo riformismo sociale in Europa, in BRONZINI (a cura di), Verso un pilastro sociale europeo, Roma, 2018, 16 ss.; BALDUZZI, Unione europea e diritti sociali: per una nuova sinergia tra Europa del diritto ed Europa della politica, in federalismi.it, 2018, 244 ss.; GIUBBONI, I diritti sociali nell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona. Paradossi, rischi e opportunità, in Persona e Mercato, 2011; LUTHER, Il futuro dei diritti sociali dopo il “social summit” di Goteborg: rafforzamento o impoverimento?, in BILANCIA (a cura di), I diritti sociali tra ordinamento statale e ordinamento europeo, numero speciale di federalismi.it, 2018; BENVENUTI, Diritti sociali, in Dig. disc. pubbl., Agg. V, Milano, 2013, 1 ss.; S. GIUBBONI, L’insostenibile leggerezza del Pilastro europeo dei diritti sociali, in Pol. dir., 2018, 559.; SALMONI, Diritti sociali e Unione europea. Dall’ordinamento comunitario allo Stato sociale europeo, in AA.VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, Torino, 2005, III, 544; BARTOLONI, Ambito d’applicazione del diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali. Una questione aper-ta, Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2018; LAZZERINI, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione euro-pea. I limiti di applicazione, Milano: Franco Angeli, 2018; PIRKER, Mapping the Scope of Application of EU Fundamental Rights, in European Papers, Vol. 3, 2018, No 1, www.europeanpapers.eu, p. 133 et seq.; Editorial, Towards a Uniform Standard of Protection of Fundamental Rights in Europe?, in European Papers, Vol. 2, 2017, No 1, www.europeanpapers.eu, p. 3 et seq.; LACCHI, Multilevel judicial protection in the EU and pre-liminary references, in Common Market Law Review, 2016; ROSSI, “Stesso valore giuridico dei Trattati”? Rango, primato ed effetti diretti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Il diritto dell’Unione europea, 2016; ROCCELLA - TREU, Diritto del lavoro della Comunità europea, Padova, 20094, p. 32 ss.; GOTTARDI,Tutela del lavoro e concorrenza tra imprese nell’ordinamento dell’Unione europea, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2010, pp. 509 ss.; ALAIMO - CARUSO, Dopo la politica i diritti: l’Europa “sociale” nel Trattato di Lisbona, Working Paper C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, INT-82/2010.
3
riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali al suo livello, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali. Essa facilita il dialogo tra tali parti, nel rispetto della loro autonomia. Il vertice sociale trilaterale per la crescita e l'occupazione contribuisce al dialogo sociale” (art. 152), si specifica il contenuto della propria competenza concorrente in materia (così come individuata ai sensi dell’art. 4 TFUE): segnatamente, ai sensi dell’art. 153 TFUE è sancito che “Per conseguire gli obiettivi previsti all'articolo 151, l'Unione sostiene e completa l'azione degli Stati membri nei seguenti settori: a) miglioramento, in particolare, dell'ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori; b) condizioni di lavoro; c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori; d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro; e) informazione e consultazione dei lavoratori; rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione, fatto salvo il paragrafo 5; g) condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell'Unione; h) integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, fatto salvo l'articolo 166; i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro; j) lotta contro l'esclusione sociale; k) modernizzazione dei regimi di protezione sociale, fatto salvo il disposto della lettera c)”.
Ancora, attraverso l’attribuzione alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) dello stesso valore giuridico dei Trattati, così come statuito dall’art. 6 del TUE, i diritti dei lavoratori assurgono all’aureo status tipico dei diritti dell’uomo, per tal via dunque giungendo, almeno in astratto, al grado assoluto in termini di riconoscimento e conseguente tutela: in particolare, è da rimarcare come la Carta testé richiamata, innanzitutto, preveda la libertà professionale ed il diritto di lavorare (art. 152), per poi dedicare, anche qui, un intero Titolo (il IV) alla solidarietà che, tra l’altro, protegge il lavoratore in diverse direzioni, e cioè in ambito di informazione e consultazione nell’ambito dell’impresa (art. 273), negoziazione ed azioni collettive (art. 284), accesso ai servizi di collocamento (art. 295), licenziamento ingiustificato (art. 306), di condizioni di lavoro giuste ed eque
2 “1. Ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata. 2. Ogni cittadino dell'Unione ha la libertà di cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro. 3. I cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell'Unione”.
3 “Ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l'informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto dell'Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali”.
4 “I lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero.
5 “Ogni persona ha il diritto di accedere a un servizio di collocamento gratuito”.
6 “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.
4
(art. 317), sicurezza ed assistenza sociale (art. 348), nonché vietando il lavoro minorile e apprestando maggiori garanzie a favore del lavoro giovanile (art. 329).
Insomma, un quadro normativo europeo di carattere primario almeno potenzialmente in grado di apprestare a favore dei propri cittadini lavoratori una tutela esaustiva in prospettiva sociale, sì da contraddistinguere l’ordinamento UE come il principale esempio di Welfare State a carattere transnazionale.
2. …e la conseguente trasposizione in termini politico-legislativi: il Pilastro Europeo dei diritti sociali, l’Autorità Europea del Lavoro e le Direttive 2018/957 e 2019/1152
E ciò che potrebbe definirsi come un’autentica svolta sociale da parte dell’UE nei termini appena accennati sembra altresì godere di ulteriore avallo in seguito all’istituzione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, sottoscritto congiuntamente dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione durante il vertice sociale per l'occupazione equa e la crescita tenutosi il 17 novembre 2017 a Göteborg (Svezia) e primo documento d’indirizzo politico e programmatico emanato dall’UE proprio allo scopo di dare concreta attuazione ai diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dal Trattato di Lisbona. In particolare, tale iniziativa, finalizzata a creare nuovi e più efficaci diritti per i cittadini europei, si basa su 20 punti chiave, strutturati in tre categorie (I – Pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, II – Condizioni di lavoro eque, III – Protezione sociale e inclusione):1) istruzione, formazione e apprendimento permanente, 2) parità di genere, 3) pari opportunità, 4) sostegno attivo all’occupazione, 5) occupazione flessibile e sicura, 6) retribuzioni, 7) informazioni sulle condizioni di lavoro e sulla protezione in caso di licenziamento, 8) dialogo sociale e coinvolgimento dei lavoratori, 9) equilibrio tra attività professionale e vita familiare, 10) ambiente di lavoro sano, sicuro e adeguato e protezione dei dati, 11) assistenza all’infanzia e sostegno ai minori, 12) protezione sociale, 13) prestazioni di disoccupazione, 14) reddito minimo, 15) reddito e pensioni di vecchiaia,
7 “1. Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose. 2. Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite”.
8 “1. L'Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali. 2. Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali. 3. Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l'Unione riconosce e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”.
9 “Il lavoro minorile è vietato. L'età minima per l'ammissione al lavoro non può essere inferiore all'età in cui termina la scuola dell'obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ai giovani ed eccettuate deroghe limitate. I giovani ammessi al lavoro devono beneficiare di condizioni di lavoro appropriate alla loro età ed essere protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, psichico, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione”.
5
16) assistenza sanitaria, 17) inclusione delle persone con disabilità, 18) assistenza a lungo termine, 19) alloggi e assistenza per i senzatetto e 20) accesso ai servizi essenziali. Dal punto di vista operativo, l’attuazione “dei principi e dei diritti definiti nell'ambito del pilastro europeo dei diritti sociali è una responsabilità comune delle istituzioni dell'UE, degli Stati membri, delle parti sociali e delle altre parti interessate. Le istituzioni europee contribuiranno a definire il quadro e fornire orientamenti sulla via da seguire per l’attuazione del pilastro attraverso la legislazione, ove necessario, nel pieno rispetto delle competenze degli Stati membri e tenendo conto della diversità delle rispettive situazioni”10.
Inoltre, l’iniziativa in questione, affiancata da un apposito quadro di valutazione on line finalizzato a monitorare le tendenze e le prestazioni a livello sociale all’interno di tutti i Paesi membri dell’UE, è da dire come vada ricondotta al più vasto dibattito relativo al Libro Bianco della Commissione Europea sul futuro dell’Europa del 1 marzo 201711 ed in occasione del quale l’esecutivo di Bruxelles ha pubblicato un documento di riflessione sulla dimensione sociale dell’Europa focalizzato sulle possibili svolte in ambito sociale e lavorativo all’interno di confini del Vecchio Continente, al contempo ipotizzando una serie di conseguenti opzioni in termini di risposta collettiva.
Rinviando al punto 4 le perplessità cui la creazione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali ha dato origine, per il momento sembra utile al riguardo completare il sommario excursus relativo alle più recenti iniziative intraprese in seno all’Unione Europea a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e, nella specie comunemente proprio riconducibili, almeno in parte, al suddetto neonato portante meta-legislativo posto a fondamento dell’architettura ordinamentale facente capo a Bruxelles: segnatamente, ci si riferisce all’istituzione dell’Autorità Europea del Lavoro e a due atti normativi derivati emanati alla fine della scorsa legislatura relativi al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (Direttiva (UE) 2018/957 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 giugno 2018, recante modifica della Direttiva 96/71/CE) e a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea (Direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019), e ciò ad ulteriore testimonianza della rinnovata ratio sociale che pare contraddistinguere le attuali politiche europee soprattutto a seguito dell’istituzione del Pilastro Europeo.
Per ciò che concerne l’Autorità Europea del Lavoro, è da dire che si è giunti alla sua istituzione sulla base dell’art. 45 TFUE e relativo alla libera circolazione dei lavoratori nel territorio dell’UE, tramite apposito Regolamento ((UE) 2019/1149), che modifica i Regolamenti (CE) n. 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, (UE) n. 492/2011 sulla libera circolazione dei
10 Così quanto specificato sul sito della Commissione Europea in materia di Pilastro Europeo dei diritti sociali: https://ec.europa.eu/commission/priorities/deeper-and-fairer-economic-and-monetary-union/european-pillar-social rights.it
11 https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf
6
lavoratori e (UE) 2016/589 relativo a una rete europea dei servizi per l’impiego (EURES), che abroga la Decisione (UE) 2016/344 volta a contrastare il lavoro non dichiarato e che è entrato in vigore il 31 luglio 2019. In particolare, tramite la creazione di tale organismo, espressamente riconducibile allo sviluppo del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali e che riunisce i compiti tecnici e operativi di numerosi organismi dell’Unione esistenti (l’EURES, il Comitato tecnico per la libra circolazione dei lavoratori, il Comitato di esperti sul distacco dei lavoratori, e la Piattaforma europea per il lavoro sommerso), si perseguono gli obiettivi volti a garantire un più facile accesso alle informazioni su diritti, obblighi e servizi relativi alla mobilità dei lavoratori in tutta l’Unione, migliorare la cooperazione tra gli Stati per far applicare le leggi pertinenti in tutta l’Unione, comprese le ispezioni congiunte, compiere opera di mediazione e facilitare soluzioni in caso di controversie tra gli Stati e potenziare la cooperazione tra gli Stati membri nella lotta al lavoro non dichiarato. A tali fini, l’Autorità europea del lavoro (con sede a Bratislava) si occupa di: migliorare la disponibilità, la qualità e l’accessibilità delle informazioni di carattere generale fornite agli individui, ai datori di lavoro e alle organizzazioni delle parti sociali per quanto riguarda i diritti e gli obblighi relativi alla mobilità dei lavoratori; sostenere gli Stati membri nella fornitura di servizi agli individui e ai datori di lavoro tramite EURES, quali l’incrocio transfrontaliero tra le offerte di lavoro, di tirocinio e di posti di apprendistato con i curricula vitae; facilitare la cooperazione e uno scambio di informazioni più celere tra gli Stati membri; coordinamento e sostegno in materia di ispezioni concertate e congiunte; in cooperazione con gli Stati membri valutare i rischi e svolgere analisi per quanto concerne la mobilità dei lavoratori e il coordinamento della sicurezza sociale; sostenere gli Stati membri nello sviluppo delle capacità finalizzate a promuovere l’attuazione coerente del diritto dell’Unione pertinente, ad esempio attraverso l’assistenza reciproca e la formazione, compresa l’elaborazione di orientamenti comuni; rafforzare il lavoro della piattaforma europea per il rafforzamento della cooperazione volta a contrastare il lavoro non dichiarato per la condivisione delle migliori prassi, sviluppare le competenze e l’analisi e incoraggiare approcci innovativi; mediare e facilitare soluzioni alle controversie tra gli Stati membri per riconciliare punti di vista divergenti12.
Con riferimento alla prima delle due richiamate Direttive, è da premettere come essa costituisca un provvedimento legislativo dal contenuto anomalo in quanto non finalizzato, come in astratto previsto dai Trattati, ad approntare una disciplina di massima finalizzata al perseguimento di uno o più specifici individuati obiettivi, ma, del tutto singolarmente, mosso al fine di rappresentare peculiari criteri atti ad individuare la norma regolabile al caso di specie, così in ultima analisi assolvendo ad una funzione di carattere essenzialmente gius-privatistico: com’è stato correttamente osservato,
12 Così quanto sintetizzato su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=legissum:4408380.
7
infatti, “La disciplina del distacco transnazionale non è finalizzata ad armonizzare le normative lavoristiche nei diversi Stati membri, ma a determinare quali disposizioni di diritto del lavoro nazionale possano essere applicate ai lavoratori stranieri senza ledere la libertà economica di quest’ultima (garantita, appunto, dalle fonti primarie dell’Ue). Le disposizioni in materia di distacco si collocano dunque nel più ampio sistema delle norme internazional-privatistiche finalizzate a selezionare la legge applicabile ai contratti che presentano profili di internazionalità”.13
Comunque, non può sottovalutarsi la rilevanza di un provvedimento normativo di tal fatta, soprattutto considerata la sottesa volontà del legislatore europeo indubbiamente così volta a colmare le endemiche lacune di matrice sociale caratterizzanti l’ordinamento UE fin dalla sua nascita: è indubbio, cioè, che “L’adozione della direttiva (UE) 2018/957 costituisce forse la novità più significativa in ambito sociale della passata legislatura europea, al punto da potervi scorgere un momento di discontinuità nella storia del processo di integrazione del mercato interno, segnato ab origine da uno squilibrato rapporto tra libertà economiche (tutelate a livello sovranazionale) e diritti dei lavoratori (garantiti a livello nazionale). Con essa viene sostanzialmente riformata la direttiva 96/71/CE, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi; fonte rivelatasi strategicamente decisiva nel regolare le dinamiche di mercato, specie dopo che l’apertura a est dell’Ue ha aggravato esponenzialmente gli squilibri economico-sociali tra gli Stati membri. Regolare il fenomeno del distacco transnazionale (cioè dell’invio temporaneo di lavoratori in uno Stato da parte di un’impresa con sede in un altro) significa infatti determinare il “quantum” di dumping sociale (in primis salariale) ammesso all’interno dell’Unione; significa, cioè, stabilire se e in che misura la concorrenza giocata sul costo del lavoro possa costituire una (legittima) leva del processo d’integrazione europea. È, allora, un indubbio segnale di un’Unione più attenta alla sua dimensione sociale e ai diritti dei lavoratori, una riforma – com’è appunto quella attuata grazie alla direttiva 2018/957 – univocamente orientata a rafforzare il potere degli Stati di assicurare più alti standard di tutela ai lavoratori stranieri distaccati sul loro territorio nazionale”14.
La modifica certamente di maggiore rilevanza di cui la norma adesso in esame è portatrice rispetto alla vigenza della precedente disciplina è indubbiamente costituita da quanto previsto in materia di trattamento salariale dei lavoratori distaccati, il cui quantum adesso deve necessariamente equipararsi alla retribuzione goduta dai lavoratori nazionali, così estrinsecando la volontà del legislatore europeo di combattere, di concerto con altre disposizioni presenti nella Direttiva in questione, il fenomeno del c.d. dumping salariale: non è un caso, dunque, che al proprio interno 13 “e in tal modo integrano quelle del regolamento (cd. “Roma I”) n. 593/2008 (in specie, l’art. 8 relativo ai contratti di lavoro), configurandosi quali norme di applicazione necessaria, delle quali uno Stato può imporre il rispetto a prescindere dalla legge regolatrice del contratto (ai sensi dell’art. 9 del medesimo regolamento)”. Così ORLANDINI – BORELLI, Appunti sulla nuova legislazione sociale europea. La direttiva sul distacco transnazionale e la direttiva sulla trasparenza, in Questione giustizia, 4, 2019.
14 Ancora ORLANDINI – BORELLI, cit.
8
quest’ultima preveda che al lavoratore distaccato spettino le medesime “indennità o rimborso a copertura delle spese di viaggio, vitto e alloggio per i lavoratori lontani da casa per motivi professionali” eventualmente garantite al lavoratore nazionale (art. 3, par. 1, lett. i); inoltre, si introduce una sorta di presunzione a favore del lavoratore nel computo delle voci retributive corrispostegli, imponendo l’imputazione, a titolo di rimborso spese, delle indennità specifiche di distacco effettivamente erogate dal proprio datore, qualora non risulti il contrario dalle condizioni applicabili al rapporto di lavoro (art. 3, par. 7). Per ciò che concerne, poi, la Direttiva 2019/1152 è necessario premettere che essa intende migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro (art. 1, par. 1): a tal fine, prevede l’obbligo per il datore di lavoro di informare i lavoratori su alcuni elementi essenziali del rapporto di lavoro (art. 4). Essa stabilisce, poi, alcuni diritti minimi – in materia di durata del periodo di prova, divieto di clausole di esclusività, prevedibilità del lavoro, transizione a un altro lavoro, formazione – che dovrebbero applicarsi a tutti coloro che hanno un contratto o un rapporto di lavoro (art. 1, par. 2) ed, inoltre, garantisce la possibilità per gli Stati membri di applicare o introdurre misure più favorevoli per i lavoratori, e vieta che il recepimento della stessa sia motivo per ridurre il livello generale di protezione riconosciuto ai lavoratori (cd. “clausola di non regresso”, art. 20). Con riguardo al proprio ambito di applicazione, per quanto la norma adesso in esame dovrebbe applicarsi a tutti i lavoratori, è anche vero, tuttavia, che tale affermazione trova un riscontro solo parziale al proprio interno: in primo luogo, infatti, gli Stati possono decidere di non applicare il contenuto della Direttiva 2019/1152 ai lavoratori il cui rapporto di lavoro sia di durata inferiore o uguale a tre ore a settimana, calcolate in un periodo di riferimento di quattro settimane consecutive (art. 1, par. 3); la deroga, seppure non si applichi nei casi in cui non è stabilita una quantità garantita di lavoro retribuita, rischia di essere, nei fatti, ben più estesa di quanto consentito qualora un lavoratore, assunto con un contratto di dodici ore al mese, si trovi costretto poi a rispettare un orario di lavoro maggiore: in tal caso, è presumibile che questi molto difficilmente citerà in giudizio il proprio datore di lavoro lamentando la violazione dell’obbligo di informazione.
Gli Stati membri possono inoltre prevedere, su basi oggettive, che i diritti fissati all’interno del capo III della Direttiva in questione (in materia di durata del periodo di prova, divieto di clausole di esclusività, prevedibilità del lavoro, transizione a un altro lavoro, formazione), non si applichino a funzionari pubblici, servizi pubblici di emergenza, forze armate, autorità di polizia, magistrati, pubblici ministeri, investigatori o altri servizi preposti all’applicazione della legge (art. 1, par. 6),
9
mentre un’altra deroga riguarda i lavoratori domestici, a cui possono non applicarsi le disposizioni sulla transizione a un altro lavoro, sulla formazione e sulle presunzioni giuridiche. La Direttiva 2019/1152 obbliga il datore di lavoro (o la persona indicata dallo Stato membro) a comunicare al lavoratore almeno una serie di informazioni (art. 4, par. 2) e nei casi in cui non vi sia un luogo fisso di lavoro (come nel caso di smart working), il datore di lavoro deve indicare che il lavoratore è impiegato in luoghi diversi o è libero di determinare il proprio luogo di lavoro, nonché la sede o, se del caso, il domicilio del datore di lavoro (art. 4, par. 2, lett. b); inoltre, qualora l’orario di lavoro non sia predeterminato, il datore di lavoro deve comunicare: a) il numero minimo di ore di lavoro retribuite e la retribuzione per il lavoro svolto oltre tale numero minimo (art. 4, par. 2, lett. m, punto i); b) il periodo in cui al lavoratore può essere imposto di lavorare (lett. m, punto ii); c) la durata minima del preavviso e il termine entro cui il datore di lavoro può revocare una chiamata (lett. m, punto iii). Per i lavoratori distaccati o in missione in un altro Stato sono poi previste informazioni aggiuntive, da comunicare prima della partenza (art. 7). Di particolare rilievo, alla luce della Direttiva 2018/957 in precedenza richiamata e relativa al lavoratore distaccato, è l’obbligo di segnalare la retribuzione, le indennità specifiche per il distacco e le modalità di rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio (art. 7, par. 2, lett. a e b), così come altrettanto importante è l’obbligo di comunicare l’istituto di sicurezza sociale ove sono versati i contributi sociali. La Direttiva in questione, poi, impone di adempiere l’obbligo di informazione per iscritto entro il settimo giorno lavorativo (art. 5) ed il proprio art. 8, par. 1, fissa a sei mesi la durata massima del periodo di prova (è però possibile oltrepassare tale soglia nei casi in cui la maggiore durata della prova è giustificata dalla natura del lavoro o nell’interesse del lavoratore (art. 8, par. 3)); in caso di lavoro a termine, il periodo di prova dev’essere riproporzionato, mentre non è possibile, inoltre, prevedere un nuovo periodo di prova in caso di rinnovo del contratto a termine per le stesse mansioni (art. 8, par. 2). Tale norma, inoltre, non consente al datore di lavoro di vietare al lavoratore lo svolgimento di altre attività lavorative, salvo che sussistano ragioni obiettive connesse, ad esempio, a esigenze di tutela della sicurezza e della salute, di riservatezza, di integrità del servizio pubblico o di prevenzione di conflitti di interesse (art. 9, par. 2), e qualora l’orario di lavoro non sia predeterminato, il datore può imporre al lavoratore di svolgere la prestazione lavorativa richiesta solo se: a) sia previsto il periodo del giorno o della settimana in cui al lavoratore può essere richiesto di lavorare (la direttiva non prevede, però, una durata massima del periodo di disponibilità); b) al lavoratore sia dato un preavviso ragionevole la cui durata può variare in funzione delle esigenze del settore interessato. Se
10
tali condizioni non sono soddisfatte, il lavoratore ha il diritto di rifiutare la chiamata, senza subire conseguenze negative (art. 10, parr. 1 e 2). L’art. 10, par. 3, impone altresì agli Stati di assicurare al lavoratore una compensazione nel caso in cui il datore di lavoro, dopo che il lavoratore ha accettato di svolgere un’attività richiesta, revochi tale incarico oltre un termine ragionevole, non riconoscendo, così, al datore di lavoro un potere di variazione della durata dell’orario di lavoro concordato con il lavoratore, mentre, al fine di evitare l’abuso di contratti di lavoro a chiamata o di altri contratti in cui il datore di lavoro ha il potere di chiamare il lavoratore in funzione delle proprie necessità , è prescritto che gli Stati membri devono prevedere una o più delle seguenti misure (art. 11): limitazioni all’uso e alla durata di tali contratti; la presunzione relativa di esistenza di un contratto di lavoro con un numero minimo di ore retribuite (sulla base delle ore lavorate a chiamata); misure equivalenti che assicurino l’effettiva prevenzione di prassi abusive. La norma in questione, ancora, prevede il diritto di chiedere un lavoro a tempo indeterminato, ma solo per chi abbia già lavorato sei mesi per lo stesso datore (art. 12, par. 1), non ricomprendendo nel calcolo di tale periodo, i periodi di lavoro a favore di altri datori di lavoro del gruppo, il precedente impiego in somministrazione o il caso della successione di appalti. La Direttiva 2018/957 prevede anche che la formazione sia fornita gratuitamente, possibilmente durante l’orario di lavoro, e sia comunque considerata come orario di lavoro, anche se non viene, tuttavia, introdotto alcun obbligo di formazione per il datore di lavoro (art. 13), mentre all’interno dell’ultima parte, è contenuta una serie di disposizioni dirette ad assicurare un’efficace tutela dei diritti garantiti dalla stessa.
Infine, in caso di violazione dell’obbligo di informazione, gli Stati membri devono prevedere almeno uno dei seguenti rimedi (art. 15): la possibilità, per il lavoratore, di sporgere denuncia a un’autorità competente e di ricevere tempestivamente un rimedio adeguato, o una presunzione “relativa” a favore del lavoratore che può comprendere la presunzione che il lavoratore ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, che non vi è un periodo di prova o che il lavoratore ha una posizione a tempo pieno, laddove le pertinenti informazioni siano mancanti; gli Stati possono, tuttavia, subordinare la presunzione alla circostanza che al datore di lavoro sia stato notificato l’inadempimento e non abbia tempestivamente fornito le informazioni mancanti e devono, altresì, introdurre misure dirette a tutelare i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, che hanno denunciato la violazione dei diritti garantiti dalla Direttiva, da ogni conseguenza sfavorevole (art. 17): in particolare, in tali casi sono vietati il licenziamento o altra misura equivalente.
11
3. La recente giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui diritti dei lavoratori alla luce della Carta di Nizza.
Da quanto sommariamente esposto con riguardo alla proficua attività che, in prospettiva sociale, ha certamente caratterizzato l’operato del legislatore europeo, nonché contraddistinto le politiche eurounitarie nei tempi più recenti, non foss’altro per la riscoperta di rationes ed obiettivi astrattamente esulanti il contesto strettamente economico-mercantile e finalizzati ad apprestare un’esaustiva tutela a favore dei lavoratori, potrebbe concludersi nel senso che l’ordinamento europeo ha compiuto quel salto di qualità di matrice solidale-umanistica reclamato a gran voce da più parti, permettendo, in ultima analisi, all’UE di porsi in una posizione di assoluta preminenza anche in ambito sociale, con specifico riferimento alla valorizzazione e conseguente protezione del lavoro.
Tuttavia, la situazione concreta all’interno dei confini politici e giuridici del Vecchio Continente nella direzione indicata è, in realtà, decisamente meno rosea di quanto potenzialmente riconosciuto a quest’ultimo, e ciò anche a causa, incredibile dictu, dell’apporto della Corte di Giustizia europea in materia, non del tutto coerente rispetto a quanto sancito a livello normativo (primario, assoluto e secondario), nonché d’indirizzo politico UE, né in grado di contrastare con efficacia le iniziative nazionali atte a destrutturare i diritti sociali soprattutto in concomitanza della crisi economico-finanziaria del 2008, per tal via precipitando l’Unione Europea nell’abisso senza fondo di un (ennesimo) kafkiano paradosso ove, tra l’altro, ai fondamentali diritti sociali dei lavoratori è de facto attribuito un ruolo condizionato, strumentale e, dunque, secondario, e rispetto ai quali si pone un grave problema di giustiziabilità degli stessi. In particolare, in considerazione della natura essenzialmente economica dell’intero processo d’integrazione, e dunque della sostanziale conseguente assoluta rilevanza dei relativi assiomi ed istituti, la subordinazione di principi e paradigmi tipici del welfare state ha rappresentato quell’inevitabile precipitato sistemico-operativo ad ispirazione delle politiche dei Paesi membri dell’UE, principalmente, se non unicamente, mossi al rispetto di vincoli economici e di bilancio sempre più stringenti, nonché al perseguimento dell’obiettivo della stabilità e dell’equilibrio finanziario; e di fronte a tale autentica opera di smantellamento dello Stato sociale all’interno dei singoli ordinamenti nazionali la Corte di Giustizia avrebbe certamente potuto e dovuto fare di più, anche e soprattutto considerato lo status di diritto fondamentale attribuito ai diritti sociali dei lavoratori in forza dell’indicato riconoscimento dello stesso valore giuridico dei Trattati a favore della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea: esemplificativa in tal senso la pronuncia della CGUE sul caso AGET Iraklis, del 21 dicembre 201615 laddove la Corte era stata chiamata a verificare
15 Causa C‑201/15.
12
la compatibilità con l’ordinamento europeo di alcune norme della legge greca n. 1387/1983, sul controllo dei licenziamenti collettivi, nella parte in cui prevedono la possibilità di procedere a tale tipo di licenziamento quando, in assenza di accordo sindacale, l’autorità pubblica nazionale competente – alla quale deve essere notificato il piano di licenziamento – non adotti, nel termine ivi previsto, una decisione motivata con la quale nega l’autorizzazione a realizzare, in tutto o in parte, i licenziamenti prospettati. In sostanza, il giudice rimettente si chiedeva se il potere spettante allo Stato di impedire i licenziamenti collettivi sulla base di valutazioni fondate sulle condizioni del mercato del lavoro, sulla situazione dell’impresa interessata o sull’interesse dell’economia nazionale, fosse compatibile o meno con l’ordinamento europeo. E per giungere alle sue conclusioni, la Corte svolge un’approfondita ed articolata argomentazione, che inizia con l’affermazione che il diritto sovranazionale non menoma in alcun caso “la libertà del datore di lavoro di procedere o meno a licenziamenti collettivi”16, che, anzi, “rappresenta una decisione fondamentale nella vita di un’impresa”17 e che, quindi, assoggettare il suddetto licenziamento al requisito dell’assenza di opposizione da parte dell’autorità pubblica competente “costituisce una rilevante ingerenza in talune libertà di cui godono, in generale, gli operatori economici”18; di conseguenza, all’interno di un contesto di tal fatta, una normativa come quella in discussione è “atta a rendere meno attraente un accesso al mercato greco e, in caso di accesso a tale mercato, a ridurre considerevolmente, o addirittura a sopprimere, le possibilità, per gli operatori di altri Stati membri che hanno fatto la scelta di installarsi in un nuovo mercato, di modulare, successivamente, le loro attività in tale mercato o di rinunciare ad esso, separandosi, in tali prospettive, dai lavoratori assunti in precedenza19” e, quindi, “può costituire un serio ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento in Grecia”20. Ma vi è di più, secondo i giudici lussemburghesi: considerato che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere sempre rispettati quando una normativa nazionale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, specie quando quest’ultima “è atta ad ostacolare una o più libertà fondamentali garantite dal Trattato21”, e poiché la normativa controversa nel procedimento principale costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento, di conseguenza essa comporta anche una limitazione all’esercizio della libertà d’impresa sancita all’articolo 16 della Carta di Nizza.
16 CGUE, sent. AGET Iraklis , 21 dicembre 2016, cit., punti 30 e 31.
17 CGUE, sent. AGET Iraklis, 21 dicembre 2016, cit., punto 54.
18 CGUE, sent. AGET Iraklis, 21 dicembre 2016, cit., punto 55.
19 CGUE, sent. AGET Iraklis, 21 dicembre 2016, cit., punto 56.
20 CGUE, sent. AGET Iraklis, 21 dicembre 2016, cit., punto 57.
21 CGUE, sent. AGET Iraklis, 21 dicembre 2016, cit., punto 63.
13
Nulla quaestio, sin qui, specie per un ordinamento, come quello eurounitario, che si ispira al liberismo in campo economico: in tempi di crisi il datore di lavoro deve poter fare ciò che vuole, perché la sua libertà d’impresa non può essere in alcun modo compressa. E’ il ragionamento successivo condotto dalla Corte a dare adito a più di una perplessità: la CGUE, infatti, prosegue affermando un principio fondamentale, e cioè quello in forza del quale l’Unione non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale e, quindi, che i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale indicati dall’art. 151 TFUE, segnatamente con l’obiettivo di un livello di occupazione elevato e con la garanzia di un’adeguata protezione sociale, perché la libertà d’impresa non costituisce una prerogativa assoluta, bensì deve essere presa in considerazione rispetto alla sua funzione nella società, oltretutto, tenendo ben presente che, ai sensi dell’articolo 30 della CDFUE, ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali. Conseguentemente, una normativa nazionale come quella greca dovrebbe mirare, in tale settore sensibile, ad una conciliazione e ad un giusto equilibrio tra gli interessi collegati alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, in particolare contro licenziamenti ingiustificati e contro le conseguenze dei licenziamenti collettivi per i lavoratori, e quelli attinenti alla libertà di stabilimento e alla libertà d’impresa degli operatori economici, sancite dagli articoli 49 TFUE e 16 della Carta. Tuttavia, a dispetto di tali premesse, che sembrano indirizzare l’opinione della Corte verso lidi tanto inattesi quanto insperati, il giudice di Lussemburgo conclude sostenendo che, sebbene, considerata nei suoi principi, la normativa greca sia compatibile con gli artt. 49 e 16 della CDFUE, ciononostante, i criteri di valutazione cui essa fa riferimento sono talmente generici e imprecisi da violarli entrambi; quindi, a livello meramente teorico, la normativa greca, prevedendo l’intervento della pubblica autorità per valutare la legittimità del licenziamento collettivo, sarebbe compatibile con il diritto sovranazionale, ma, nella pratica non lo è, perché i criteri di tale valutazione di cui si avvale sono troppo generici e imprecisi, con la conseguenza che il datore di lavoro può sempre procedere al licenziamento collettivo e che nel bilanciamento tra le ragioni dell’economia e le ragioni del sociale, prevalgono, come quasi sempre accade a livello sovranazionale, quelle dell’economia e, anzi, “i diritti collettivi fondamentali dei lavoratori (sciopero e contrattazione collettiva) vengono convertiti in poteri privati tendenzialmente oppressivi” della libertà di stabilimento e, soprattutto, della libertà di impresa, “in quanto ostruttivi dell’accesso al mercato interno”22.
22 Così GIUBBONI, Libertà d’impresa e diritto del lavoro nell’Unione europea, in Costituzionalismo.it, n. 3/2016, parte II, 111.
14
Del pari piuttosto inquietante, si pone la successiva pronuncia della Corte relativa al caso Abercrombie & Fitch, ed in occasione della quale quest’ultima ha affermato che “gli Stati membri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima23”; in tal senso, continua la Corte, “gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo24”. In sostanza, i datori di lavoro hanno la facoltà “di concludere un contratto di lavoro intermittente in ogni caso e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età”, ponendo in essere una discriminazione basata sull’età, se la normativa in questione ha l’obiettivo di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, specie in virtù del fatto che “l’assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in difficoltà (…), è un fattore che penalizza i giovani25”. E tutto ciò si spiega facendo leva sull’obiettivo principale e specifico di tale normativa che “non è quello di consentire ai giovani un accesso al mercato del lavoro su base stabile, bensì unicamente di riconoscere loro una prima possibilità di accesso a detto mercato. Si tratterebbe, con tale disposizione, di fornire loro una prima esperienza che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Pertanto, tale disposizione sarebbe relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro26”; e atteso che “la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione” una misura che autorizza i datori di lavoro “a concludere contratti di lavoro meno rigidi (…) può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibilità sul mercato del lavoro27”. È verosimile, infatti, che le aziende “possano essere sollecitate dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e, quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d’impiego proveniente da giovani lavoratori28”. Inoltre, “in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si ritrovi disoccupato29”.
23 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 30.
24 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 31.
25 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 33.
26 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 34.
27 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 33.
28 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 41.
29 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 42.
15
Insomma, “dette forme flessibili di lavoro sono necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale, eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali”, anzi, sarebbe auspicabile “che il maggior numero possibile di giovani possa far ricorso” a contratti di lavoro intermittenti, perché se tutti questi contratti “fossero stabili, le imprese non potrebbero offrire lavoro a tutti i giovani, con la conseguenza che un numero considerevole di giovani non potrebbe accedere a tali forme di lavoro30”. Di conseguenza, incredibilmente, la Corte stabilisce che non vi è violazione dell’art 21 della CDFUE che disciplina la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e che non si dà alcuna discriminazione in base all’età se una normativa nazionale consente al datore di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e di licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari.
Tuttavia, a parziale spiegazione, e non certo giustificazione dell’impotenza e dell’incapacità palesata da parte dell’organo giurisdizionale deputato a garantire il suddetto progressivo, diffuso disconoscimento dei diritti fondamentali dei lavoratori soprattutto a seguito della crisi finanziaria cui si è accennato, non può trascurarsi che la Corte di giustizia opera (anche) come Corte dei diritti, ma in modo affatto diverso rispetto non solo alle Corti Costituzionali nazionali, ma anche agli altri organismi che, a vario titolo, vigilano sul rispetto degli standard internazionali di tutela dei diritti fondamentali: perché un diritto sancito dalla Carta di Nizza possa essere invocato davanti alla CGUE (o eventualmente davanti ad un giudice nazionale) è, infatti, necessario che sia sorta una controversia relativa all’applicazione di una norma di diritto dell’UE e che produca effetti diretti negli ordinamenti nazionali, dal momento che la Carta (secondo quanto prescrive l’art.51) non “introduce competenze nuove (…) per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati” ed è utilizzabile “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’UE”; di conseguenza, esulano dalla competenza della CGUE tutte le iniziative almeno formalmente non riconducibili all’interno di quest’ultimo (atti d’indirizzo politico e coordinamento delle politiche nazionali), ma nei fatti dotati, come noto, di effetti vincolanti. D’altro canto, non può sottacersi come il rapporto tra la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE e le normative nazionali, e richiamato proprio dall’art. 51 della Carta di Nizza, per quanto rappresenti certamente un contesto piuttosto complesso per ciò che, specificamente, riguarda l’ambito di
30 CGUE, sent. Abercrombie & Fitch Italia Srl, 19 luglio 2017, cit., punto 44.
16
applicazione della medesima, avrebbe forse meritato maggiore attenzione da parte dei giudici lussemburghesi in prospettiva di valorizzazione dei diritti fondamentali. Tuttavia, anche in riferimento a tale ambito, deve registrarsi un’ulteriore occasione (volutamente?) persa da parte della CGUE nella direzione indicata; segnatamente, in occasione della sentenza sul caso Åkerberg Fransson31 la Corte ha specificato che le norme della Carta in questione debbano applicarsi all’atto nazionale che “rientr[i] nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”; e giacché non possono “esistere casi rientranti nel diritto dell’Unione senza che tali diritti fondamentali trovino applicazione”, “applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta” stessa. Specularmente, sempre in Åkerberg Fransson, la Corte di Giustizia ha anche chiarito che la Carta dei Diritti fondamentali UE non può produrre effetti rispetto agli atti nazionali che si collochino “al di fuori” delle situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione Europea, al riguardo specificando che si tratterebbe di un’impossibilità assoluta, tanto che le norme della Carta di Nizza non potrebbero essere applicate nei confronti di un atto nazionale che non rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione neppure se fossero, da esso, espressamente richiamate. Dall’art. 51 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, tutt’uno con quanto statuito dalla CGUE in occasione della sentenza sul caso Åkerberg Fransson, scaturirebbe dunque una rigida dicotomia: allorché gli Stati membri adottino atti rientranti nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea, si applicherebbe la Carta di Nizza; quando, invece, gli Stati membri provvedono ad emanare atti non rientranti nell’ambito di applicazione del diritto dell’UE, si applicherebbero le rispettive Costituzioni nazionali: non vi è posto, in questa concezione dicotomica, per situazioni, per così dire, “intermedie”, lasciando così aperta la concreta possibilità di differenziazioni di trattamento tra individui che dovessero versare in situazioni differenti de jure, ma de facto analoghe. E applicando tale composito paradigma, in talune circostanze (quelle collocabili nell’ambito di applicazione del diritto dell’UE) gli individui godrebbero dei molteplici diritti loro riconosciuti in virtù della Carta di Nizza, mentre, in altre circostanze che pur potrebbero essere fattualmente ad esse assimilabili (quelle non collocabili nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea), agli individui non sarebbe riconosciuta alcuna tutela. Ancora una volta, a titolo esemplificativo si pensi proprio alla materia del diritto del lavoro: in tale settore il lavoratore, che per ventura si trovi in una situazione ricadente nell’ambito di applicazione del diritto dell’UE, vedrebbe i propri diritti e le proprie prerogative accrescersi per
31 Sentenza del 26 febbraio 2013, causa C-617/10,
17
mezzo della Carta di Nizza, mentre un altro lavoratore, in una situazione concretamente analoga a quella del primo, ma da ritenersi puramente interna, non godrebbe del medesimo trattamento. E tale differenziazione emerge, ad esempio, nel recente caso Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften32, ove veniva in rilievo il diritto soggettivo ad un periodo annuale di ferie retribuite, il cui mancato riconoscimento può verificarsi, com’è evidente, tanto in situazioni sussumibili nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea quanto in situazioni puramente interne. In forza di tale arresto, la CGUE ha, anzitutto, riconosciuto la diretta efficacia dell’art. 31, par. 2, della Carta: “[i]l diritto a un periodo di ferie annuali retribuite, sancito per ogni lavoratore dall’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, riveste […], quanto alla sua stessa esistenza, carattere allo stesso tempo imperativo e incondizionato”; tuttavia, la Corte ha precisato che tale diritto, sorto appunto per effetto diretto della Carta, potesse considerarsi parte della sfera giuridica individuale soltanto in talune circostanze, essendo l’art. 31, par. 2, della Carta invero “di per sé sufficiente a conferire ai lavoratori un diritto invocabile in quanto tale in una controversia contro il loro datore di lavoro”, ma soltanto nell’ambito di “una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione e, di conseguenza, rientrante nell’ambito di applicazione della Carta”; appunto, era soltanto in relazione “alle situazioni che rientrano nel campo di applicazione della [Carta]”, che “il giudice nazionale [avrebbe dovuto] disapplicare una normativa nazionale contrastante” con l’art. 31 della Carta33.
4. È davvero l’inizio di una nuova era sociale in Europa? Il contesto giurisprudenziale europeo non può certamente considerarsi l’unico punctum dolens con riguardo alla (presunta) compiuta emersione di una coscienza sociale all’interno dell’UE, al contrario potendo intendersi alla stregua di un’inevitabile, almeno in parte, ricaduta logico-sistemica in riferimento ad elementi e rationes di carattere genetico ispiranti il progetto d’integrazione europeo considerato nella sua complessità, e specificamente finalizzato alla costruzione di uno spazio mercantile condiviso e governato dai paradigmi del liberismo economico.
32 Sentenza del 6 novembre 2018, causa C-684/16
33 CGUE, sent. Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, 6 novembre 2018, p. 75. Con riguardo al tema del diritto al godimento delle ferie, nonché in materia di orario di lavoro, è doveroso ricordare le più recenti posizioni della CGUE, e che meritano di essere accolte con favore. Si fa riferimento, in particolare, alla pronuncia emessa dalla Corte di Giustizia al fine di assicurare l’effetto utile dei diritti previsti dalla Direttiva n. 88 del 2003 sull’orario di lavoro e dalla Carta di Nizza, pronunciata in relazione alla causa C-55/18 del 14 maggio 2019 ed in forza della quale gli Stati membri devono imporre ai datori di lavoro l’obbligo di istituire un sistema oggettivo, affidabile e accessibile che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore. Tali evenienze, tuttavia, rappresentano ancora un’eccezione rispetto allo sconfortante quadro accennato nel corpo del testo, e comunque ribadiscono la necessaria presenza di una norma europea come presupposto affinché la Corte sia legittimata a pronunciarsi anche con riguardo alla tutela di diritti fondamentali.
18
Se, al di là dei vacui proclami e sterili petizioni di principio che sordamente riecheggiano all’interno di quella sorta di vuoto pneumatico di natura sociale e solidaristica che proveremo a dimostrare contraddistingue, in realtà, la normativa primaria europea originaria, nonché a dispetto della solenne proclamazione dei diritti sociali alla stregua di diritti fondamentali e degli interventi di natura legislativa e politica ad essa susseguenti, si è, infatti, in grado di non smarrire tale assioma fondativo, per tal via provando, dunque, a non arrestarsi in primis proprio alla lettera dei Trattati, con ogni probabilità dovrebbe comunque concludersi per una sostanziale persistenza degli accennati obiettivi alla base della nascita dell’allora CEE, con conseguente inevitabile afferenza ad un momento secondario e strumentale financo della supposta, ed ancora in divenire, coscienza sociale europea. Ed evidenti segnali in tale prospettiva sembrano potersi trarre, ad esempio, proprio da alcuni passaggi della richiamata normativa primaria UE laddove, segnatamente, all’interno dell’art. 3 TUE si statuisce espressamente in merito ad un’inverosimile “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, astratta base fondativa, tra le altre, con riguardo allo sviluppo sostenibile dell’Europa, ma statuizione, in concreto, di incerta e contradditoria natura: come peraltro intuibile anche per i non addetti ai lavori, infatti, un sistema economico può alternativamente strutturarsi o sulla base di finalità essenzialmente sociali in ottica redistributiva almeno con riguardo a servizi essenziali, e dunque avulse ai principi tipici di un sistema liberal-capitalistico quali la massimizzazione dei profitti da perseguire all’interno di un contesto di libera concorrenza in quanto scevro da interventi esterni, oppure, al contrario, specificarsi in forza di tali ultimi fattori testé richiamati, non potendo dunque considerarsi affatto cumulabili i rispettivi elementi caratterizzanti.
Ancora, la stessa disposizione di cui al citato art. 151 TFUE tramite i propri punti 2 e 3 espressamente sancisce la sostanziale subordinazione, nonché strumentalità di cui agli obiettivi di natura sociale ed occupazionale indicati all’interno del precedente punto 1 in funzione del funzionamento del mercato, laddove, rispettivamente, specifica che “l'Unione e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell'economia dell'Unione” e che, conseguentemente, questi “ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l'armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dai trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative”.
A ciò si aggiunga che la disposizione adesso in esame riproduce fedelmente quanto sancito ai sensi della sua precedente formulazione, e cioè l’art. 136 del Trattato sulla Comunità Europea, non subendo alcuna modifica dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, così ribadendo l’accennato carattere strumentale dei diritti sociali con riguardo all’approfondimento del mercato unico: come ha brillantemente specificato al riguardo autorevole dottrina “Le evoluzioni del diritto primario non
19
eliminano tutte le ambiguità in ordine all’effettività dei diritti sociali nell’ordinamento giuridico dell’Unione. In effetti, la politica sociale dell’Unione non sembra propriamente motivata da un obiettivo di protezione dei diritti sociali fondamentali, specie se si considera il troppo vago riferimento a questi ultimi e al largo il margine di manovra lasciato agli Stati nazionali. Non è casuale che molti autori siano dell’avviso che l’art. 136 del TCE si limiti a un richiamo ai diritti sociali fondamentali senza che ciò ne comporti anche il rispetto”34.
E tutto ciò, sostanzialmente considerato che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona non ha inciso in concreto sulle competenze dell’UE in ambito sociale, così lasciando sul campo una grave questione in merito all’effettività degli stessi; ancora citando a tal ultimo proposito richiamata autorevole dottrina “Le difficoltà che si incontrano nell’individuare la competenza dell’Unione in materia sociale hanno come conseguenza la riduzione dei diritti sociali al rango di “parenti poveri” del processo di integrazione. A nostro avviso, detta competenza dell’Unione è da considerarsi in progress, viepiù considerata la reticenza con cui le competenze, appunto, e gli obiettivi sociali sono stati inseriti nel testo dei Trattati. In questo contesto giuridico, la funzione dei diritti sociali non può che rilevare in via indiretta e funzionale, come corollario indispensabile alla realizzazione del mercato interno”35.
Con riguardo, poi, al suggello di diritti fondamentali ricevuto dalle prerogative in questione in virtù del riconoscimento alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei Trattati, sembrano valere, in sostanza, le medesime obiezioni, da aggiungersi ad altre di carattere più strettamente sistemico e, in particolare, relativo ai richiami effettuati dall’art. 151 TFUE alla Carta sociale europea del 1961 e alla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989: segnatamente, per quanto l’espresso richiamo a tale tipologia di diritti appare certamente di primaria rilevanza, gli effetti giuridici che produce non sembrano immediatamente percepibili atteso che i diritti sociali fondamentali riconosciuti dal Trattato di Lisbona , infatti, sono esclusivamente quelli già previsti dalle due Carte testé richiamate, e inoltre, lungi dal rappresentare il presupposto e l’obiettivo dell’azione dei pubblici poteri, essi vanno solo tenuti presenti dall’Unione e dagli Stati membri nell’ambito dei propri obiettivi sociali.
A ciò si aggiunga la circostanza che, nel mettere in atto misure volte al raggiungimento dei predetti obiettivi, Stati membri e Unione devono tenere conto “della necessità di mantenere la competitività dell’economia dell’Unione” e che l’evoluzione in senso sociale dell’Unione risulterà automaticamente “dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi
34 Così CECCHINI, I diritti sociali nel quadro del diritto dell’Unione europea, in KorEuropa, 7, 2015.
35 Ancora CECCHINI, cit.
20
sociali”: palese, quindi, come la garanzia dei diritti sociali appaia ancora pressoché interamente rimessa alle regole non scritte del libero mercato.
Neanche il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali sembra esente da rilievi critici sulla falsariga di quanto appena osservato rispetto alla normativa primaria, riducendosi de facto, ad un’analisi più attenta, più al rango di abile operazione di marketing politico che a documento effettivamente dotato di pregnanza in direzione sociale e, per ciò che ci riguarda più da vicino, di tutela dei lavoratori: innanzitutto, dal contenuto del documento ora in esame, e come peraltro già evidenziato dalla relativa Comunicazione della Commissione (Avvio di una consultazione su un pilastro europeo dei diritti sociali – COM(2016)127, p. 5), ove si afferma infatti che mercati del lavoro funzionanti e inclusivi devono abbinare efficacemente elementi di flessibilità e di sicurezza, tali da assicurare livelli superiori di occupazione e di capacità di adattamento, appare piuttosto evidente la volontà di non mettere in discussione le regole della governance economica e il modo in cui è stato costruito il mercato unico.
Ancora, tale documento, riconducibile all’alveo degli atti non vincolanti, comprende una serie di principi e diritti che, proprio per l’essere previsti in atti di soft law, non sono direttamente applicabili, né, men che meno, giuridicamente azionabili; spetterà poi alle Istituzioni dell’Unione e, soprattutto (alla luce della ripartizione delle competenze prevista nei Trattati), agli Stati membri, dare seguito e concreta attuazione a tali principi, così di fatto perseverando nell’accennata e sostanziale non effettività degli stessi, in quanto condizionati dalla tutela del mercato a livello UE, nonché dalle contingenti scelte di politica economica adottate dai singoli Stati membri. “E, d’altronde, che il Pilastro sia stato adottato con il medesimo peccato originale di sempre e, quindi, in funzione dell’integrazione economica, della stabilità finanziaria, dell’Unione economica e monetaria, insomma, in funzione del mercato, emerge limpidamente anche da quanto affermato dalla stessa Commissione europea nella sua Comunicazione del 26 aprile 2017, dove si legge che «il pilastro stabilisce una serie di principi e diritti fondamentali per sostenere mercati del lavoro e sistemi di protezione sociale equi e ben funzionanti» perché «come sottolineato nella relazione dei cinque presidenti dal titolo “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa”15, ciò è essenziale anche per costruire strutture economiche più resistenti»16. Insomma, l’Europa sociale serve a quella economica…”36.
Lo scarso impatto prodotto dal Pilastro sulle politiche sociali euro-unitarie è d’altra parte testimoniato dal fatto che, a seguito della sua adozione, non sono state avviate nuove iniziative legislative, ma sono state portate avanti alcune proposte già pendenti (in materia di congedi parentale, sulla trasparenza del mercato del lavoro e sulla protezione sociale delle persone con qualunque forma
36 Così SALMONI, Le politiche di austerity e i diritti sociali nel processo d’integrazione europeo, in Costituzionalismo.it – La democrazia costituzionale, p. 158, fascicolo 3, 2019.
21
di impiego); e anche su tali proposte, la sua influenza è stata modesta (come nel caso della Direttiva sulla trasparenza delle condizioni di lavoro) o addirittura nulla (come nel caso della Direttiva sul distacco transnazionale, in realtà riconducibile non già nell’ambito delle politiche sociali dell’UE, cui lo stesso Pilastro sociale si riferisce (titolo X della parte III del TFUE), bensì all’interno del differente contesto delle fonti di regolazione del mercato interno (di cui al titolo IV del TFUE e, in specie, all’art. 56 relativo alla libertà di prestazione dei servizi)). In conclusione, non può certamente sostenersi che l’Unione Europa sia finalmente caratterizzata da un’effettiva rinnovata matrice sociale, e ciò nonostante il richiamo dei diritti dei lavoratori e delle prerogative afferenti l’ambito solidale ed occupazionale: al contrario, sembra piuttosto evidente come questi ultimi principi ed istituti continuino a ricoprire un ruolo secondario all’interno del panorama ordinamentale europeo ed essenzialmente strumentale rispetto al rafforzamento del mercato unico. Quali le possibili soluzioni? L’interrogativo, ed ancor prima il tema, è tanto complesso quanto decisivo con specifico riferimento alla direzione che l’Unione Europea vuole (decidersi a) prendere: è innegabile, infatti, che un’autentica virata in senso sociale importerebbe una radicale rifondazione dell’intero progetto d’integrazione europeo, attualmente contraddistinto come visto, da logiche, criteri, finalità e relativi strumenti operativi di natura economico-mercantile e, dunque, del tutto antitetici rispetto a quanto agognato in prospettiva di welfare: la felice coniugazione del raggiungimento di obiettivi tipici di un sistema capitalistico con il soddisfacimento di interessi collettivi per il tramite di politiche statali ed interstatali estranee ai meccanismi di mercato non può, infatti, che ineluttabilmente rappresentare la più recondita delle utopie, un’imbellettata chimera a 27 stelle, un sogno lucido dal quale destinati a bruscamente destarsi per mano della più brutale applicazione dei parametri economici imposti da Bruxelles. E ove al “sociale” non resta che raccogliere le briciole. Verosimilmente, il compimento del processo d’integrazione politico prima che economico in senso federalista e per il tramite di una completa rivisitazione delle proprie peculiarità genetiche potrebbe rappresentare un momento di svolta anche in riferimento al tema che ci riguarda, non foss’altro per il manifesto fallimento di un’Europa capace di riscoprirsi unita solo come entità mercantile ed anche perché questo implicherebbe l’attribuzione a favore dell’UE anche di competenze relative al contesto oggetto del presente contributo, attuale lacuna che si pone come ostacolo insormontabile anche solo alla possibilità di rendere effettiva la tutela dei diritti dei lavoratori, e non solo in sede giudiziaria; Insomma, sarebbe auspicabile un sostanziale azzeramento dell’attuale architettura dell’ordinamento europeo attraverso l’individuazione di principi, valori ed obiettivi costitutivi

Comments